Ricordo ancora benissimo quel giorno: una torrida domenica di luglio di una torrida estate di esami interminabili. Una città nuova. Una università nuova. Una nuova casa da cercare nella calura mattutina per dare inizio ad una nuova importante fase della mia (nostra) vita.
Quella domenica non era un giorno come tutti gli altri. Nel primo pomeriggio uscii in ciabatte, pantaloncini e canotta alla ricerca dell’unico tabacchi aperto della zona. Mi servivano le sigarette, ma quella salita sembrava non finire mai. Non volava una mosca. Mi resi conto che non passavano né auto, né persone a piedi. In realtà era il tempo a non passare mai.
Venivamo da una cavalcata delle nostre, gasati a mille dall’impresa di pochi giorni prima contro la Germania. La nazione(ale) di calciopoli aveva dato uno di quegli schiaffoni ai padroni di casa tedeschi che non si dimenticano manco a distanza di cinquant’anni. Quanto rosicano e rosicheranno ancora? Siamo noi quelli che si portano a casa le semifinali memorabili. Ci dovete stare.
La vittoria con i crucchi, molto forti già allora, ci aveva fatto capire che ci trovavamo per davvero di fronte ad una di quelle annate buone. Quelle che non puoi farti scappare l’occasione. Quelle che, ormai da troppi anni, ci facevamo sempre scappare.
La situazione non era per nulla dissimile a quella degli europei di sei anni prima quando avevamo vinto contro ogni previsione e contro ogni logica la semifinale contro l’Olanda per poi trovarci di fronte…la Francia. Una squadra data per morta più di noi prima del mondiale ma che era arrivata a quella finale incantando tutti. La banda di Domenech aveva fatto il culo a strisce, nell’ordine, a Spagna, Brasile e Portogallo. Mica come noi che, Germania a parte, avevamo fatto i fenomeni con l’Australia (non proprio i fenomeni) e l’Ucraina.
Ecco cos’era quel silenzio che riempiva quel torrido pomeriggio: era un silenzio di paura. Un mese passato piuttosto allegramente, affrontando le partite con la spocchia di chi sotto sotto pretende di arrivare in fondo, ma non vuole prendersi troppo sul serio. Il solito mondiale da italiani che si esaltano quando le cose vanno bene ma hanno nel taschino il “Ve l’avevo detto”, il “Tanto lo sapevo” e il “Mandateli a lavorare” pronti ad essere tirati fuori alla prima difficoltà.
Quelle frasi erano rimaste nel taschino per fortuna ma, proprio in quel momento in cui l’impresa con i crucchi avrebbe dovuto renderci pienamente consapevoli della nostra forza, abbiamo cominciato a farcela sotto. Noi e un po’ anche i giocatori, che in fondo anch’essi sono italiani. Camoranesi compreso.
A parte la prima col Ghana, avevamo visto tutte le partite nella casa in cui m’ero appoggiato da pochi mesi. Eravamo in cinque: io, la mia fidanzata (che ora è mia moglie), i miei due coinquilini romani e una loro amica. La sera del 9 luglio non facemmo eccezione. Squadra che vince non si cambia anche quando pareggia (come con gli Stati Uniti), o quando un po’ la rubacchia e un po’ la scula (come agli ottavi con l’Australia). Sedie in balcone, televisore all’interno della stanza, le trombe assordanti dei calabresi del piano di sotto che avevano cominciato a fare casino già verso le sei.
Furono due ore surreali un po’ come la partita stessa. Arrivò il rigore per loro e Zidane quasi lo sbagliò per fare il coglione (era una serata che gli era presa così, lo avremmo capito meglio dopo). Con noi che urlammo di gioia e ci abbracciamo per venti secondi buoni convinti che lo avesse sbagliato davvero. Seguì il pareggio di quello capitato lì per caso: Marco Materazzi. L’antipatico (e fierissimo di esserlo) quasi a tutti, che per un’estate diventò un po’ meno antipatico.
La partita continuò con fasi di stanca che si alternarono a legni, gol annullati un po’ a caso e palle che sibilavano a fil di palo, un po’ di qua e un po’ di là. Ai supplementari la svolta, con quel fenomeno di Zizou che scapocciò chiudendo una carriera da film con una scena da osteria.
Il resto lo sapete, inutile stare a farvi la cronaca. L’avrete letta mille volte, l’avrete rivista altrettante. Se vi va potrete rivederla per intero qui sotto:
Io e quella che ora è mia moglie trovammo finalmente un bilocale e andammo a vivere insieme una quarantina di giorni dopo. I miei ex coinquilini romani, con in quali avevo vissuto per una manciata di mesi, li rividi per bene una volta sola. Vennero a cena alla nostra casa nuova. Avemmo qualche altro incontro fortuito in giro. Poi basta. Non ci sentimmo più né ci vedemmo più.
Non ho la più pallida idea di dove siano adesso. Di cosa stiano facendo ora che vanno per i cinquanta (erano più grandicelli di me). Un cosa però la so: so solo che i loro nomi e i loro volti non li dimenticherò mai perché le persone con le quali hai il privilegio di vivere un evento così unico, intenso e travolgente come la vittoria di un campionato del mondo, non le dimenticherai mai. Neanche dopo 50 anni.
Ciao Davide. Ciao Alessandro. Ovunque voi siate, vi voglio bene!