E’ passata ormai più di una settimana dalla buffonata delle buffonate denominata Super League. La crisi è rientrata, per fortuna. Si è potuto tornare a parlare di calcio giocato in attesa dei verdetti della stagione e di una sessione di chiusura dei bilanci che, a questo punto, scoperte quasi tutte le carte in tavola, rischia di trasformarsi in una vera e propria operazione a cuore aperto per il calcio nostrano. E non solo.
Io gestisco questo blog e il relativo profilo twitter da diversi anni. Mi occupo di fantacalcio (a modo mio) ed ho il piacere di chiacchierare quotidianamente con tanti di voi sui più svariati argomenti che ruotano attorno al mondo del pallone.
Sin dall’inizio di questa avventura ho seguito una politica ben precisa: quella di non rivelare la squadra per la quale batte il mio cuore. Il motivo è molto semplice: far sì che il mio dialogo con ciascuno di voi non fosse filtrato da alcun tipo di pregiudizio.
Ovviamente ho la consapevolezza che alcuni abbiano mangiato la foglia. Cinque anni e decine di migliaia di twit lasciano trasparire indizi rilevanti. E c’è chi li sa cogliere.
Questa vicenda della Superlega mi ha coinvolto molto dal punto di vista emotivo. Ci sono cose decisamente più importanti del pallone nella vita, lo so. Ma quando ami qualcosa non puoi rimanere indifferente. E vedere la squadra per la quale tifo sin da bambino (quale? se non cambio idea ve lo dico più sotto) partecipare a questa farsa a metà strada tra il meschino e il grottesco è stato come ricevere una coltellata alla schiena.

Il calcio così com’è non mi piace e non l’ho mai nascosto. Il merito sportivo e la passione di tifosi e praticanti sono stati ripetutamente presi a pesci in faccia negli ultimi venticinque anni. Riforme di stampo oligarchico hanno favorito le federazioni organizzatrici dei campionati più ricchi e blasonati. I club di punta di queste federazioni si sono visti regalare un posto pressoché perpetuo nella massima competizione continentale e, di conseguenza, un accesso, anche questo pressoché perpetuo, ad una marea di introiti milionari.
A raccogliere maggiormente i frutti di queste riforme, dal punto di vista sportivo ed economico, sono state le spagnole Real, Barcellona e Atletico e la tedesca Bayern. Le big italiane e quelle inglesi, per qualificarsi alla Champions League, devono perlomeno sudare un po’ di più, visto che giocano in campionati mediamente più equilibrati.
Ma la storia è molto lunga e vorrei raccontarvela in queste righe, per come la vedo io. Soprattutto a beneficio dei più giovani e dei più smemorati. Senza la pretesa di avere la verità in tasca. Sono un tifoso normale. Ho fatto un percorso di studi che non spiattello ai quattro venti un twit ogni due, e ho un determinato bagaglio di esperienza. Questo è solo il mio punto di vista e credo che, pur non essendo d’accordo, molti di voi vi potranno cogliere diversi spunti di riflessione interessanti. Prendetela come fosse una chiacchierata davanti ad una birra…e mettetene altre due o tre in frigo. Vi serviranno perché da buon alcolista sarò prolisso e spesso ripetitivo…
Partiamo dalla metà degli anni ’90…
Le riforme del calcio europeo e i loro effetti nefasti sul pallone che tanto amavamo.
Le prime riforme in senso oligarchico del calcio europeo (faccio riferimento soprattutto ai graduali allargamenti della Coppa dei Campioni diventata poi Champions League nella stagione 1997/98) hanno prodotto fondamentalmente due effetti nefasti sullo sport che amavo e amo ancora (nonostante tutto).
Da un lato si è messo in atto l’omicidio del glorioso calcio dell’Est Europa (complici anche la caduta del muro di Berlino, la sentenza Bosman e il progressivo allargamento verso oriente dell’Unione Europea) i cui club sono stati via via emarginati perdendo l’unica vera arma a disposizione per arginare lo strapotere dei club occidentali, ovvero la capacità di coltivare talenti e di riuscire a trattenerli con sé ben oltre i vent’anni.
Oggi un campioncino della Stella Rossa a 17 anni scappa via. Meglio giocare in una Lipsia o in un Siviglia qualsiasi che fanno tutti gli anni (o quasi) la Champions League e che pagano bene, che rimanere a Belgrado, prendere meno quattrini, e rischiare di uscire ai preliminari perdendo la possibilità di esibirsi sui palcoscenici più importanti d’Europa.
Una volta questi ragazzi sarebbero rimasti “a casa” un paio d’anni in più preferendo giocare la Coppa dei Campioni con la Stella Rossa, anziché la Coppa Uefa (o forse manco quella), col Siviglia o col Lipsia di turno.
Solo per farvi una paio di esempi possiamo citare Hristo Stoichkov, passato dal CSKA di Sofia al Barcellona a ventiquattro anni, Sinisa Mihajlovic passato dalla Stella Rossa di Belgrado alla Roma a ventitre anni e George Hagi, passato dalla Steaua di Bucarest al Real Madrid a venticinque anni. Potrei continuare all’infinito.
E’ stata una rapina a mano armata in pieno stile.
L’altro sconvolgente effetto di queste riforme è stato lo svuotamento di significato di molti dei maggiori campionati nazionali.
Per tante squadre il vero obbiettivo, ora e sempre, è quello di arrivare nelle prime quattro per intascare i soldi della qualificazione alla Champions. Provare a vincere lo scudetto? Vabbè, non esageriamo, troppa fatica. Se proprio proprio ci troviamo lì a primavera se ne può parlare, altrimenti chi ce lo fa fare? Meglio galleggiare.
Un atteggiamento parassitario che ha lasciato una prateria alle squadre più forti che hanno potuto aprire cicli lunghissimi proprio per l’atteggiamento semi-arrendevole di una concorrenza non più stimolata a fare un vero salto di qualità.
Senza contare la riforma, sempre in senso oligarchico, della nostra Serie A, col passaggio a 20 squadre (mossa che poteva avere anche un senso) e la contemporanea riduzione del numero delle retrocessioni (mossa, questa, totalmente priva di senso – sportivo, intendo).
Questa riforma ha garantito ad una pletora di club medio-piccoli di galleggiare anch’essi all’infinito, nella consapevolezza che il rischio di finire in Serie B fosse minimo. L’unico vero core business di tante di queste società è diventato il player trading. Inutile pianificare a lungo termine un miglioramento e una crescita della squadra. Fatica superflua se tanto non si rischia mai davvero di rimetterci l’osso del collo. Meglio comprare e vendere a ripetizione o prestarsi ai giochetti contabili della big di turno.
Gli interessi legittimi dei magnati delle TV hanno fatto il resto.
Spezzatini indigeribili che hanno fatto estinguere quel fantastico rito della domenica pomeriggio che aveva accompagnato la nostra prima adolescenza e le vite dei nostri padri. Il tutto in nome della massimizzazione dell’audience.
Soldi. Solo soldi. Sempre soldi.
La spirale del debito.
La pioggia di quattrini caduta sul “giocattolo calcio” in conseguenza di queste riforme è stata foriera di disastri. Avrebbe dovuto cementare la situazione economica dei club più blasonati, cui questo sistema garantiva di avere una disposizione di risorse economiche senza precedenti. Invece ha innescato un circolo vizioso che le ha condotte a spendere cifre sempre più irragionevoli.
Se da un lato le società tedesche hanno approfittato a piene mani della maggiore disponibilità di risorse riuscendo a coniugare un’oculata gestione economica delle proprie società con progetti sportivi lungimiranti e competitivi, il resto delle big del continente ha deragliato completamente. Nella pia illusione che gli aumenti di fatturato potessero essere infiniti ed esponenziali, tantissimi Top club “mediterranei” hanno cominciato a fare le “cicale” impazzite gestendo in maniera totalmente dissennata tutto questo denaro e innescando la spirale suicida del debito.
In cassa c’era 10, preventivavano illusoriamente che a breve sarebbe diventato 20 e poi spendevano 40. L’anno dopo in cassa c’era 15, preventivavano che a breve sarebbe diventato 30 e poi spendevano 60. Il tutto grazie ad istituti bancari compiacenti, una politica “distratta” e tifosi (sì, un pezzo della colpa ce l’abbiamo pure noi tifosi) accecati dal desiderio di vincere tutto e subito.
Ad aggravare in maniera irreversibile questa infantile gara a chi ce l’ha più lungo, poi, sono arrivati quelli che il cazzo lungo (anzi lunghissimo) ce l’avevano veramente. Magnati ed emiri mossi da interessi primariamente politici e con disponibilità di denaro (loro sì) praticamente illimitate. Parliamo di persone che non hanno come scopo il profitto fine a se stesso ma, nella migliore delle ipotesi (voglio escludere le attività illecite), quello di usare i club acquistati e la loro immagine come strumento geo-politico di soft-power. Società che, proprio per questi motivi, possono permettersi di operare in perdita.

Se fino a quel momento i prezzi dei calciatori erano saliti in maniera incontrollata, da quel momento in poi è diventato un vero e proprio manicomio. E i procuratori hanno cominciato a sguazzarci dentro ancor di più di quanto non facessero già prima.
Le big storiche, per fronteggiare questi nuovi club emergenti (City e Psg su tutti), anziché riorganizzarsi in maniera razionale, hanno provato a reagire nella solita maniera. Spendere, spendere e ancora spendere…soldi che non avevano.
Le istituzioni calcistiche, consce del problema, hanno predisposto uno strumento atto a contenere questo disastro. Strumento, il fair play finanziario, che si è dimostrato del tutto inefficace per due motivi: il primo è che non era accompagnato da uno strumento di limitazione dei costi che mettesse un tetto agli ingaggi fermando la corsa verso il dissanguamento; il secondo è che è stato applicato facendo figli e figliastri.
La Uefa ha giocato a fare Chuck Norris con i “deboli” e a fare Rosco P Coltrane con i “forti”.

I motivi di questo atteggiamento non li conosco nel dettaglio ma sono facilmente intuibili. Stiamo parlando di due organizzazioni, la Uefa e la Fifa, che nei decenni passati non sono state affatto esenti da scaldali legati alla corruzione. Basti pensare al Qatargate (cliccando sul link potrete scaricare il pdf completo del numero di France Football che, per primo, fece lo scoop). E non mi sorprenderei se in un futuro neanche troppo lontano ne dovessero emergere altri volti a disvelare il perché di molti degli accadimenti del passato recente.

La crisi di questa bolla del debito del calcio professionistico europeo ha raggiunto il suo apice con l’epidemia di coronavirus. I bilanci hanno subito un pesante contraccolpo a seguito della decisa contrazione dei ricavi. Con gli stadi vuoti da più di un anno sono venute a mancare montagne di quattrini e questo mette ancor più a rischio la sopravvivenza di una quantità enorme di società calcistiche, dalle più blasonate a quelle dilettantistiche. Società che vivevano già con l’acqua alla gola in tempi normali.
È arrivato l’inverno. Come nella famosa favola di Esopo della cicala e della formica, chi ha passato l’estate a cantare ora rischia di morir di fame. Chi ha passato l’estate a far provviste può guardare al domani con fiducia, pur dovendo stringere forte la cinghia.
Le big europee in maggiore difficoltà sono quelle spagnole e quelle italiane. A differenza loro, le concorrenti tedesche non sono affatto sommerse dai debiti. Le concorrenti inglesi, invece, pur sommerse dai debiti, giocano in un campionato nazionale che garantisce introiti molto più elevati perché molto più seguito a livello planetario per mille ragioni che non sto qui ad elencare.
Il bluff della Superlega.
Anziché ripensare i loro modelli di gestione e sviluppo (e forse comunque sarebbe troppo tardi) accettando un ridimensionamento sostanziale della struttura dei costi, Perez e compari hanno provato il colpo gobbo (ogni riferimento è puramente casuale).
La Superlega non è idea dell’altro ieri. È un progetto che serpeggia sotto-traccia da almeno tre decenni e che, se presentato in tempi di vacche grasse, avrebbe avuto molta più credibilità. Si tratta di una rivoluzione copernicana del modo di concepire il calcio che a me disgusta, ma che contiene in nuce più di un fondamento logico, almeno dal punto di vista economico e dello “spettacolo sportivo” inteso come enterteinement.
Ma Berlusconi, che l’aveva proposta in passato, da buon volpone non s’era mai spinto oltre una mera dichiarazione di intenti. Probabilmente sapeva benissimo che non ci sarebbero stati i presupposti, né politici e né economici, perché l’idea passasse.

La “gaglioffata” del 19 aprile 2021 rimarrà negli annali come la più colossale figura di merda della storia del calcio. Un gruppetto di 12 società, già spaccato al suo interno (come emerge chiaramente dai retroscena degli ultimi giorni), ha provato a mettersi contro il mondo intero.
Quale speranza di successo avrebbe mai potuto avere un progetto apertamente ostile alle più potenti istituzioni calcistiche, a milioni e milioni di tifosi e ai vertici delle altre centinaia di squadre che hanno fatto la storia del calcio in questo continente? Pochissime.
Speranze che sono diventate zero nel momento in cui il principale promotore di tale progetto, per presentarlo al mondo, si è recato in uno studio televisivo dichiarando “papale papale” d’aver bisogno di ancor più soldi di quelli che già incassa per evitare il fallimento della propria squadra.
Nel giro di ventiquattro ore la Superlega, così come concepita, si è rivelata per quel che era: il disperato tentativo di mettere le mani su un maxi-prestito garantito da JP Morgan. Un prestito che avrebbe appianato nell’immediato le voragini nei bilanci delle squadre coinvolte ma che avrebbe dovuto essere prima o poi restituito. E i presupposti per la sua restituzione poggiavano tutti quanti sul successo commerciale planetario del nuovo format. Presupposti tanto aleatori quanto velleitari, perché chiunque abbia mai lavorato nel marketing sa benissimo che tra gli studi di fattibilità e il reale successo di una nuova proposta commerciale passano un’infinità di variabili non tutte prevedibili.
I club inglesi, quelli che più avevano da perdere buttandosi a capofitto in un azzardo del genere, hanno desistito subito. Gli è bastato annusare un po’ l’aria.
L’ostilità dei tifosi propri e di quelli delle altre squadre stava creando un danno d’immagine enorme. L’ostilità dichiarata del governo britannico, che non disdegna i voti dei tifosi e che sa bene quanto valga l’attuale Premier League per le casse dello stato e per l’immagine del Regno Unito nel mondo, stava creando i presupposti per una guerra con l’establishment politico che avrebbe visto le sei proprietà rischiare di uscirne a pezzi.

Da che mondo è mondo, quando un’azienda compie operazioni che vanno contro l’interesse nazionale, i poteri dello stato si muovono per andare a “prenderla per le orecchie e riportarla a cuccia“. Come è normalissimo che sia. Succede ad un gigante di livello planetario come Google di prendere “schiaffi nel cuzzetto” dal governo americano appena sgarra. Figuriamoci sei “squadrette” che fatturano quanto un pelo dell’orecchio del colosso di Mountain View e sono guidate da management mediamente molto meno capaci. Siamo in Inghilterra, mica in Belize o in Mauritania!
Boris Johnson poteva anche essere già a conoscenza e approvare in linea di massima tale progetto (come ha rivelato The Guardian) ma le opinioni dei singoli leaders politici, in geo-politica, contano infinitamente meno di quanto noi comuni cittadini si possa pensare. E’ il parere degli apparati quello che conta davvero.

Il progetto era tanto fallace quanto azzardato. Aveva contro, inferocite, sia le istituzioni che il mondo del tifo. Per City, Utd, Chelsea, Liverpool, Tottenham e Arsenal l’impresa non valeva il rischio.
Stupisce l’enorme errore di valutazione fatto a priori. Quando cominciarono ad uscire le prime notizie io pensavo che dietro ci fosse una reale pezza d’appoggio politica. Invece niente. Ma come è potuto accadere?
Possono esserci almeno un paio di motivazioni. La prima è che le proprietà di queste squadre sono per la maggior parte straniere (mi riferisco sempre a quelle inglesi), aliene rispetto all’ambiente nel quale operano. Non hanno il polso della situazione.
La seconda ci fa tornare al discorso che facevo alcuni paragrafi addietro sugli studi di fattibilità. Ci sono tante, troppe variabili che rischiano di sfuggire agli analisti. E in questo caso pare evidente, come affermato anche dal consigliere scientifico di Limes Dario Fabbri, quanto nella stesura di tale progetto si sia colpevolmente omesso di avvalersi di una consulenza geo-politica. Non aver previsto la portata dell’ostilità delle istituzioni dei paesi interessati è stata una cantonata epica.
Per approfondire brevemente questa specifica tematica vi consiglio di ascoltare la puntata della rubrica del venerdì di Dario Fabbri intitolata “Superlega vs Geopolitica” (della durata di 11 minuti circa) uscita il 24 aprile.
Trovate il video qui sotto…
…e i podcast di Radio List (due chiacchierate sull’argomento, di una quarantina di minuti ciascuno, tra il direttore dell’Agi Mario Sechi e lo stesso Dario Fabbri).
Li trovate linkati di seguito:
Geopolitica della SuperLeague – 20 aprile 2021;
Perde la Super, vince la Premier (e BoJo) – 21 aprile 2021;
I club inglesi giocano già nel Campionato più ricco del mondo. Un campionato che assicura loro montagne di soldi. Perché mettere a rischio tutta quella montagna di soldi sicuri per imbarcarsi in un’avventura che prometteva fiumi di denaro solamente in via ipotetica? Perché mettere a rischio tutta quella montagna di soldi sicuri per imbarcarsi in un’avventura che avrebbe compromesso l’immagine dei brand dei club coinvolti agli occhi delle loro fan base europee?
Sarebbe stato un suicidio. E infatti si sono tirati indietro subito.
Non sappiamo neanche con precisione quanti siano davvero i tifosi sparsi per il mondo. E vi pregherei di non dare troppo credito a ricerche di mercato nebulose che straparlano di potenziali bacini d’utenza immensi ma che, spesso, hanno il solo scopo di lisciare il pelo al committente (ne parlerò meglio più avanti).
I tifosi europei, al contrario, sappiamo benissimo quanti siano. E sappiamo anche quanto abbiano un peso specifico notevolmente superiore rispetto a quelli sparsi in giro per il mondo sia in termini di capacità di spesa, che in termini di radicamento e fidelizzazione.
E i tifosi europei non vogliono un circo itinerante fatto di un numero spropositato di esibizioni di tecnica sopraffina quasi sempre fini a sé stesse. I tifosi europei vogliono l’adrenalina. Vogliono partite che pesino davvero. I tifosi europei vogliono che a nessuno sia preclusa, almeno in via ipotetica, la strada verso il paradiso e che, al contempo, a nessuno sia preclusa, almeno in via ipotetica, la discesa verso gli inferi.
La mondializzazione del calcio, a mia modesta opinione, non garantisce il successo dal punto di vista commerciale di questo prodotto. Un secolo di tradizione non può essere cancellato da un’operazione avventata come quella della Superlega. Operazione ben poco credibile anche perché guidata da società in gravissima difficoltà economica.
Florentino Perez, nell’intervista al Chirighuito Tv che avevo citato già alcuni paragrafi più in su, a me ha dato l’impressione (passatemi l’esagerazione) del tossico che ti abborda per strada chiedendoti qualche spiccio asserendo che deve comprar da mangiare ai figli.
Quale credibilità voleva avere, rivolgendosi ai milioni e milioni di tifosi che in quel momento stava escludendo con un tratto di penna dal grande calcio europeo che conta, asserendo che la Superlega fosse un’operazione volta a salvare il “pallone” di tutti?
Pensava di cavarsela davvero con la storiella degli inviti?
Verrebbe istintivamente da dire: “Com’è umano lei!!!“. E da citare la fantastica voce fuori campo quando recita: “Per farsi perdonare l’increscioso incidente, i conti Serbelloni, con un’astuta mossa padronale, invitarono Fantozzi e Filini al tavolo d’onore”.
La reazione dei tifosi italiani sui social.
Le ore immediatamente precedenti ai comunicati con i quali le dodici squadre rendevano pubblico il progetto sono state catalizzate da numerose indiscrezioni e, come prevedibile, su twitter si è scatenato il putiferio.
I tifosi italiani si sono dichiarati per la maggior parte contrari o perplessi. Ma ciò è avvenuto in proporzioni molto diverse rispetto all’Inghilterra. Siamo italiani. Quando si tratta di prendere scorciatoie e saltare file (questa era l’essenza, in sostanza, della Superlega) non ci facciamo pregare due volte. Non è un luogo comune. È la cifra antropologica di una fetta non trascurabile della nostra popolazione.
L’entusiasmo di molti tifosi di Juve, Milan e Inter è sfociato in delirio di onnipotenza. Qualcuno che tentava d’argomentare c’era, non v’è dubbio. Io stesso ho perso due giornate in lunghissimi ed interessanti dibattiti con diversi amici virtuali. Ma si tratta di mosche bianche.
La timeline era tutto un pullulare di “Rosikaaaa!!“, “Scrivilo senza piangere!!”, “Adesso verremo a far man bassa dei vostri giocatori migliori” e così via.

A stupirmi ancor di più rispetto all’incarognimento del dibattito cui siamo ormai tristemente abituati, sono stati i livelli di “pappagallismo” raggiunti da un buon numero di questi “appassionati”. Ad ogni obiezione sensata mossa nei confronti di questa buffonata chiamata Superlega, oltre al classico a già citato “Rosikaaaa!!!” partiva un vasto campionario di risposte automatiche ripetute fino allo sfinimento, tipo: “Le piccole squadre campano grazie ai soldi delle grandi”, “Il mondo vuole vedere Bayern-Psg tutte le settimane“, “Ma tanto già adesso vincono sempre le stesse”.

Passate ventiquattro ore, quando, inesorabile, la sconfitta dei secessionisti andava via via delineandosi, il campionario di frasi fatte è stato frettolosamente aggiornato. Si è passati ai: “E ma lo stipendio di Ceferin?”, “E ma lo stipendio di Guardiola?“, “E ma lo stipendio di De Zerbi?”.

Per fortuna la Superlega è morta e sepolta. Molti di noi però, in quelle quarantotto ore, hanno offerto il peggio di sé stessi.
Tolto il ciarpame social, esistono delle argomentazioni sensate. Quelle che ho classificato come “risposte a pappagallo” avevano un senso, quando correttamente esposte.
La prima e più insistente di queste argomentazioni è quella secondo la quale l’attuale sistema sia già chiuso nei fatti. Un modello nel quale vincono sempre le stesse squadre, quelle che spendono di più, mentre le altre si nutrono solo di miraggi. O di briciole, quando gli va bene.

È un’obiezione giusta e fondata. Ma se davvero il problema è rappresentato dal fatto che vincano sempre le stesse squadre, chiunque potrebbe eccepire che la soluzione a tale problema non si può trovare restringendo in maniera definitiva il campo non lasciando più spazio al resto della concorrenza, che pure esiste e che è molto agguerrita quando scende sul terreno di gioco (vedasi Atalanta, Ajax o Lipsia, solo per citarne tre).
La storia del calcio europeo dimostra come, sul medio-lungo periodo, gli equilibri tendano a mutare sempre. La Superlega era il goffo tentativo di scattare un’istantanea degli ultimi 15 anni che cristallizzasse per sempre la situazione attuale affinché essa non potesse mutare mai più. Un abominio.
Lo sport che tanto amiamo vive di cicli più o meno lunghi. Sono pochissime le squadre che possono vantare di esser state sempre protagoniste della scena internazionale. Il Real e il Bayern forse. Il Liverpool e il Milan, ma con alti e bassi abbastanza marcati.
Lo stesso Barcelona aveva una storia più o meno insignificante a livello europeo fino alla fine degli anni settanta ed ha spiccato il volo per davvero solo all’inizio del nuovo millennio con l’esplosione di Leo Messi.
Il City e il Psg, prima dell’arrivo degli sceicchi, avevano storie e palmares internazionali inferiori a quelli di una Lazio o di un Psv Eindhoven. Ed è ancora così (almeno fino alla fine di questa Champions League) nonostante un decennio di miliardi spesi e nonostante i Neymar, gli Aguero e gli M’bappè.
Pensare che la situazione attuale, anche in presenza di oggettive sperequazioni tra squadre ricchissime e squadre normali, possa rappresentare il punto d’approdo definitivo e immutabile del mondo del pallone, significa cadere nella trappola di Fukuyama. Non dobbiamo farci trarre in inganno.
La storia non è finita. I rapporti di forza sono destinati a mutare nel tempo. E’ inevitabile.
Un’altra delle argomentazioni più cavalcate riguardava la presunta volontà di una parte maggioritaria pubblico di poter usufruire in maniera più continuativa di uno spettacolo di alto livello. Affermazioni che possono tranquillamente riassumersi nel: “Vogliamo vedere Psg-Bayern tutte le settimane” che avete letto e riletto per una settimana abbondante. Si tratta di una richiesta legittima ma che, a mio modesto parere, si fonda su almeno un paio di presupposti errati.

Le squadre che fanno parte dell’élite del calcio europeo dispongono di giocatori straordinari e di allenatori bravissimi. Vederle giocare è una gioia per gli occhi. Ma siamo proprio sicuri che se si incontrassero tutte le settimane sarebbe la stessa cosa?
L’estetismo fine a se stesso stucca. Il pathos e la routine non vanno per nulla d’accordo.
Io, da vecchio nostalgico della Coppa dei Campioni, faccio sempre presente alle persone con le quali dibatto, quanto fossero straordinarie, grazie alla loro unicità, le sfide che mettevano di fronte negli anni novanta le squadre più importanti del nostro continente.
Prima della storica finale di Atene del 1994, il Milan e il Barcelona si erano incontrate in tutto solo quattro volte. E pima di poter aver l’occasione di vendicare quel pesantissimo 4-0 i blaugrana dovettero aspettare la bellezza di sette anni.
Dal 2000 in poi gli incroci tra le due squadre, tutti nella Champions League riformata, sono stati quattordici (in ben otto di queste occasioni in palio c’erano solo i punti del “gironcino”)…e solo perché i rossoneri mancano la qualificazione da diverso tempo, altrimenti sarebbero state anche di più. Lo trovate davvero così entusiasmante?
Il vero problema delle coppe europee moderne, secondo me, non è rappresentato dal Ferencvaros e dalla Dinamo Zagabria. Il vero problema delle coppe europee moderne è rappresentato dall’elevato numero di partite che “non valgono niente”.
Questa bulimia di big match, per la maggior parte fini a se stessi, ammorba lo spettatore medio fino a marzo, mese in cui si parte con l’eliminazione diretta (il calcio di una volta) e ci si comincia a divertire per davvero.

Il ragionamento vacilla ancor di più quando si attribuisce ad una parte maggioritaria degli appassionati di voler veder solo e sempre partite di cartello. Ho passato giorni a leggere vaneggiamenti sul fatto che, da sole, le 12 squadre promotrici della Superlega avessero un numero di tifosi superiore a quello di tutte le altre squadre dell’universo mondo messe insieme.
Qui c’è da fare pace col cervello e anche con la matematica delle elementari. Non esiste alcuna indagine statistica certificata in merito ma non ce n’è bisogno. E’ lapalissiano che non possa essere così. Eppure mi sono trovato a dover dibattere con utenti di twitter sempre pronti a sparare cifre a casaccio prese qui e lì da internet. E, a quelle cifre, ci credono davvero.
La più divertente è quella che trovate sul sito della sisal (Le squadre più tifate al mondo) la quale attribuisce la stima al portale zeelo (tipo l’Ocse, a occhio e croce – risate di sottofondo), secondo la quale il Manchester United, da solo, arriverebbe a oltre 650 milioni di tifosi in tutto il mondo. In pratica una abitante su dieci del nostro pianeta, contando pure i neonati del Messico, le nonne del Giappone e gli aborigeni d’Australia, tiferebbe per i Red Devils.
Mi è venuto istintivamente da ridere, ma in realtà ci sarebbe da piangere.

Tali affermazioni sono palesemente false. I tifosi delle dodici squadre rappresentano una minoranza abbastanza marginale nel nostro continente. Basti pensare che le tre nazioni da cui provengono mettono insieme meno di duecento milioni di abitanti, a fronte di un Europa che, nel suo complesso, consta di oltre settecento milioni di abitanti (e non ho aggiunto turchi, israeliani, kazaki e russi asiatici, popoli non inclusi nel conteggio ma afferenti, calcisticamente parlando, ai tornei del nostro continente).
La maggior esposizione mediatica a livello mondiale porta le dodici “squadre elette” ad avere un maggiore seguito a livello extra-europeo. Ma non dobbiamo cadere nel tranello linguistico. La nostra parola tifoso, in inglese, ha due corrispondenti: fan e supporter.
Il tifoso vero e proprio, per come lo intendiamo noi, è il supporter. Questo perché, alle nostre latitudini, quando ci riferiamo alle tifoserie, noi intendiamo riferirci a “gruppi di seguaci/sostenitori”. La parola fan può essere meglio tradotta con “ammiratore”. E gli ammiratori non sono seguaci/sostenitori. Il loro rapporto con “marchio” è, generalmente, molto più labile.

Fan, inoltre, è un termine più comunemente associato al singolo atleta che alla sua squadra. Tanto che a me viene forte il dubbio che i fans di cui tanto si parla nelle statistiche irreali sulle “squadre più tifate al mondo” citate da diverse fonti on-line (che parlano sempre e solo di fans) siano più legate alla popolarità dei singoli calciatori (gli “idoli”) che a quella delle squadre per le quali militano.
Ho come l’impressione che, se l’anno prossimo Messi e Ronaldo decidessero, per assurdo, di andare a giocare uno al Rosenborg e l’altro al Panathinaikos, una discreta parte di questi “fans intercontinentali” non vedrebbe l’ora di vedere Rosenborg-Panathinaikos, anziché Barcelona-Juventus.

Siamo sicuri che la volontà e gli interessi di questi “tifosi” (ammesso che la loro volontà sia quella di avere la Superlega) possa contare, anche dal punto di vista economico, più di quella dei tifosi europei?
Potremmo discutere all’infinito delle varie sfaccettature di questo tema ma non ci schioderemmo mai dal vero problema: l’attuale sistema si è spinto già troppo in là rispetto alle richieste dei club più ricchi. Come vi ho raccontato all’inizio di questo pezzo, lo ha fatto con riforme che sono andate avanti per step, facendole digerire a noi appassionati utilizzando la “tecnica della rana bollita“.
Quegli stessi club che fecero pressione ai tempi delle prime riforme sono quelli più inguaiati adesso. Segno che un aumento del giro d’affari, se coniugato a scarse capacità gestionali nel presente e ad un’assenza di visione di medio lungo periodo, comporta solo un aumento dei disastri.
Cosa augurarsi per il prossimo futuro?
Passata la bufera cosa resta da fare? Perché i problemi economici delle grandi big del calcio permangono sul tavolo e l’ennesima riforma della Champions League presentata da Ceferin e dalla sua combriccola insiste sempre nella stessa direzione: più garanzie per i club ricchi, più partite, più soldi. Niente di più stupido.
Il senso di tale visione è brillantemente riassunta in questo twit di @AsoiafE:

Qua il problema vero è lo scolapasta. I soldi (l’acqua) non mancano. Sono le persone che li gestiscono e le regole troppo lasche il ventre molle di questa industria.
Se non si adotteranno provvedimenti seri volti a mettere un freno alle spese folli di molte società dovremmo abituarci all’idea che il sistema possa collassare su se stesso. Io non voglio abituarmi a questa idea, ma sono un modesto tifoso che quando faceva notare come la frase “Ronaldo si ripaga con le magliette” (lo sosteneva Filippetti nel 2018 sul Sole 24 Ore…il Sole 24 Ore capito?) fosse una colossale cretinata, veniva preso a pernacchie virtuali.
Il contenimento dei costi è la prima strada da perseguire. I club devono ripensare il loro modo di stare al mondo, così come ogni azienda normale fa, soprattutto in periodi di crisi.
In secondo luogo i club più blasonati dovrebbero utilizzare il loro peso politico e mediatico, non per chiedere più soldi, ma per pretendere che le istituzioni sportive e governative li tutelino a livello normativo dalla deriva folle di un mercato che sta conducendo il pianeta calcio, per come lo conosciamo noi, dritto verso il burrone.
Sarà facile? No, ovviamente. Ma è l’unica strada percorribile.
Io sono un inguaribile romantico e penso che il torneo più bello della storia del calcio sia stata la Coppa dei campioni. Ma sono anche abbastanza pragmatico da capire che il punto d’approdo di questo lungo percorso di riforme delle competizioni continentali sarà un Campionato europeo per club che le sostituirà in toto.
Potrebbero volerci ancora un paio di decenni, ma alla fine si farà. Ci si arriverà per step, sotto l’egida della Uefa (e non per volontà di una manciata di club in mutande) e il merito sportivo non potrà non essere uno dei pilastri fondanti del nuovo sistema.
Verranno create, molto probabilmente, una “Seria A” e una “Serie B” europee e i campionati nazionali avranno un ruolo simile a quello che hanno attualmente, nel nostro sistema, i nove gironi della Serie D. Adeguati meccanismi di promozione e retrocessione regoleranno la salita e la discesa all’interno di questa piramide competitiva così che a nessuno possa essere precluso il sogno di ascendere dai campionati nazionali verso il Paradiso e, viceversa, che nessuno possa essere esentato dall’incubo di una ri-discesa verso gli inferi.
Con buona pace dei cantori dello sport a licenze…
Ringrazio per la pazienza quei due o tre che sono arrivati fino in fondo nella lettura di questo pezzo (il più lungo che abbia mai scritto per il blog).
Volevate sapere quale fosse la mia squadra del cuore?
Beh, se non lo avete intuito oggi non so in che altro modo farvelo capire…
Vi voglio bene. Ci sentiamo domani su twitter per le formazioni della trentaduesima giornata di Hyboria League.